Abbiamo il piacere e l’onore di pubblicare un articolo su L’Aquila, scritto da Barbara Innamorati (vedi in fondo), drammaturga aquilana che offre un itinerario della città, che è anche un percorso. Un percorso sincero, scritto da chi la città la conosce, la vive, la ama.
“Il ritorno a casa ha sempre qualcosa di magico quando dall’autostrada si apre la visione della città, mollemente adagiata in una conca protetta dalle montagne. Tornare a L’Aquila, anche adesso che la città è chiusa in un bozzolo a curarsi le ferite del terremoto. Non ha perso mai la sua bellezza e anche tra i cantieri del centro continua a raccontare le sue storie, i suoi aneddoti e a crearne di nuovi. I luoghi non cessano di esistere solo perché sono feriti. La città di cui parlo oggi è composta dai ricordi, dalle speranze ma soprattutto dall’assoluta certezza di ciò che è rimasto e che sta rinascendo.
Un labirinto in continuo mutamento
Fare quattro passi in centro è una meravigliosa avventura perché, una città in ricostruzione, cambia faccia quasi quotidianamente: i cantieri, le strade sbarrate, i sottoservizi. Con la chiusura delle attività commerciali, degli uffici, delle scuole si sono persi i punti di riferimento e con le riaperture se ne sono creati dei nuovi.
Tutto concorre a costruire una sorta di labirinto in cui non è affatto difficile perdersi, come in fondo accade nei migliori viaggi.
L’Aquila ti accoglie con un’aria fresca e limpida, con il Gran Sasso maestoso che sembra quasi vegliare sulla città, un vecchio amico che ti protegge e ti regala paesaggi e colori che si rinnovano costantemente e a volte ti convincono a fermarti.
Delle antiche mura restano anche le porte aperte ed è proprio da una di queste, Porta Castello, che si accede al labirinto. Il parco del Castello, il Forte Spagnolo che dal ‘500 è un elemento identificativo della città, ora si è arricchito con l’Auditorium di Renzo Piano, passato e presente che convivono come in un tacito accordo, in equilibrio tra conservazione e innovazione. Tutto intorno il verde popolato dai suoni della natura e da quel dialetto un po’ aspro che è la nostra lingua madre e che, subito dopo il sisma, ha trovato nuova linfa diventando un forte collante sociale, un cardine dell’aquilanità, forse un modo per ritrovarsi nei giorni della diaspora.
una sfida a resistere, per ricucire anche con l’arte un tessuto sociale sfilacciato da questi primi dieci anni di vita post sisma. Stiamo creando una nuova relazione con i luoghi di sempre, è un compito quotidiano a volte complicato.
Lasciandoci alle spalle la Fontana Luminosa e scendendo lungo il Corso stretto, troviamo una sorpresa: Piazza Regina Margherita con un pentacolo sul selciato e la fontana del Tritone, un soggetto acquatico in una città di montagna. Dico una sorpresa perché, prima del sisma, c’era un’edicola che chiudeva la visione di insieme di questa piazzetta, un piccolo gioiello. Tutto intorno è una sinfonia di suoni metallici, gravi e striduli, il più grande cantiere d’Europa si diceva qualche anno fa. Però può capitare di sentire il suono di un flauto e di trovarsi di fronte Klaus-Peter Diehl, musicista tedesco che tanto ha nel cuore i nostri luoghi.
Quando la musica riecheggia tra i vicoli e le strade del centro storico è inevitabile sentire la nostalgia di ciò che fu, quando non era affatto raro incontrare artisti, musicisti e teatranti che si esibivano nelle vie del centro. Ma si sente anche la speranza di ciò che è ora fatto da quelli che con caparbietà e forse un pizzico di follia hanno scelto di restare a danzare sopra gli ostacoli in un piccolo laboratorio a Fontesecco o nei nuovi spazi, nel chiuso delle proprie cantine o in luoghi precari: una sfida a resistere, per ricucire anche con l’arte un tessuto sociale sfilacciato da questi primi dieci anni di vita post sisma. Stiamo creando una nuova relazione con i luoghi di sempre, è un compito quotidiano a volte complicato.
Oggi, e chissà per quanti anni ancora, camminiamo sull’asfalto piuttosto che sui sampietrini e, paradossalmente, mi trovo a considerare questo uno dei segni più evidenti del terremoto perché i palazzi coperti dalle impalcature sono un’esperienza comune, non insolita ma l’idea che si renda necessario asfaltare per poter restaurare da la misura della vastità dei danni causati dal sisma. Così ho imparato a sollevare lo sguardo per rimanere incantata dai dettagli, dai balconi e dalle finestre che in passato non avevo mai visto.
Se alla fine del corso decidessimo di svoltare a sinistra potremmo arrivare alla Basilica di San Bernardino che domina una scalinata che scende verso via Fortebraccio, una delle più antiche del centro, e da questo punto in alto, ancora tutte le montagne ed il verde che lo sguardo riesce a contenere.
La città ha le sue radici proprio in questi territori che la circondano, nel mondo dell’agricoltura e della pastorizia, terre di incontri e relazioni commerciali che si sviluppavano nel mercato di Pi azza Duomo che, prima ancora di essere tale, era proprio la Piazza del Mercato, nato nel Medioevo e restato in vita fino al 5 aprile del 2009. Una leggera pendenza verso il Duomo, quindici strade che sbucano sulla piazza e ancora adesso l’equivoco su quale sia il capo piazza e il piedi piazza perché questa città da sempre sovverte le regole.
È una città faticosa L’Aquila, una lunga discesa verso il borgo Rivera che ospita la fontana monumentale delle 99 Cannelle, mascheroni che gettano acqua in un antico lavatoio. Più o meno tutti da bambini abbiamo provato a contarle perché leggenda vuole che se ci provi risultano sempre essere 98 o 100.
Faticosa dicevo, perché una volta scesi bisogna anche risalire e allora si cammina lungo via XX Settembre per arrivare alla Villa Comunale e riprendere fiato sotto i tigli profumati prima di avviarsi alla scoperta di un altro tesoro: un lungo viale alberato, un grande prato e sullo sfondo la facciata maestosa della Basilica di Santa Maria di Collemaggio, con i suoi disegni tipici e il delicato colore rosa e i folletti scolpiti nei fregi dei portali.
Dopo questa lunga passeggiata attraverso il labirinto sarebbe bello riposarsi, magari nel verde del Parco del Sole che fiancheggia la basilica e che si è arricchito con l’Amphisculpture di Beverly Pepper: i colori e le geometrie di Collemaggio fusi perfettamente con il verde di un anfiteatro naturale, il luogo ideale per fermarsi e riflettere su questo percorso fatto di ricordi, di speranza e di realtà.
Storicamente i terremoti spopolano i territori e la ricostruzione non è una sfida ma una scelta consapevole, l’accettazione di un cambiamento drammatico ma inevitabile. L’Aquila è terra di emigranti e noi che siamo in qualche modo i figli di chi ha lasciato questo luogo siamo cresciuti mantenendo nel nostro DNA le note e le parole di un canto d’amore per la propria terra:
Come ‘nu sassu che frizzéa volennu,
‘stu trenu me portea tantu lontanu
cchiù pass’ju tempu e cchiù passa corrennu
‘stu core se facea cchiù aquilanu.
Me parea, me dicea, che ss’olea ravvicina
L’Aquila bbella me’.
L’Aquila bbella me’.
Tu che mi scì vistu ‘e nasce,
tu che mi scì vistu ‘e cresce.
Aquila bbella me’.
Te vojio revete’.
Per questo, comunque vada, ovunque ci porti la vita, L’Aquila è il posto in cui tornare.”
Barbara Innamorati
L’Aquila, Marzo 2019
Editing: Venusia
Photo ©autori vari specificati
Barbara Innamorati
Aquilana. Si è laureata in Lettere Moderne con una tesi in Drammaturgia in una tenda della Protezione Civile, tre settimane dopo il terremoto del 6 aprile 2009. Questa vicenda ha segnato la sua storia personale e quella professionale. Drammaturga e socio attivo dell’Associazione ArtistiAquilani onlus fino al 2016, attualmente collabora in maniera discontinua con associazioni e artisti del territorio esplorando la scrittura nelle sue varie declinazioni.
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