La valle che circonda il paese di Scanno è ricca di sorprese. Una di queste, è il bioagriturismo Valle Scannese gestito da Gregorio Rotolo, uno dei simboli della pastorizia abruzzese. Dopo aver pranzato con i prodotti dell’azienda, il responsabile della comunicazione Michael Di Genova ci ha fatto visitare le stalle, il caseificio e le cucine, raccontandoci la storia del lavoro di Gregorio e della sua famiglia.
Com’è nato il bioagriturismo Valle Scannese?
L’azienda nasce circa quarant’anni fa, quando il nome più rappresentativo dell’azienda Gregorio Rotolo, che all’epoca aveva più o meno dieci anni, ha chiesto a suo padre delle pecore in regalo. Suo padre era pastore, emigrato in Venezuela e poi tornato.
Fu un punto di partenza molto più difficile di quanto si potrebbe pensare oggi: a quei tempi, in questa zona si producevano molto formaggio e molta carne.
L’azienda di Gregorio cercava di ritagliarsi uno spazio in una realtà già presente e importante, con radici ben conficcate nel terreno.
Ciò che gli ha permesso di mantenersi in vita – al contrario di molte altre aziende che oggi non esistono più – è stata la sua abilità nel dare un taglio diverso all’azienda attraverso la diversificazione del prodotto.
Cosa intendi, quando parli di diversificazione del prodotto?
Principalmente, in Abruzzo, i pastori producevano pecorino o formaggio di vacca. Gregorio, avvia delle varianti di produzione, e la (ri)scoperta di alcuni formaggi.
Ad esempio il trittico, un formaggio a pasta filata fatto con tre tipologie di latte mescolate insieme, o il Gregoriano, un formaggio morbido di latte di pecora.
Inserendo delle innovazioni nel processo tradizionale di produzione del formaggio abruzzese, ha portato l’azienda a confrontarsi con uno scenario diverso
Perché è andato ad interessare una fascia di mercato che a quei tempi non esisteva e che anche oggi è difficile trovare.
Tutto questo in Abruzzo o anche fuori?
All’inizio principalmente all’interno, poi ha scelto di andare in giro per fiere e mercatini in Italia e all’estero. Due settimane fa era a Parigi. L’azienda oggi si confronta anche con l’internazionale.
Oggi, Valle Scannese non rappresenta solo una produzione diversificata dell’Abruzzo, ma anche un vero e proprio presidio territoriale:
andando ancora al pascolo, siamo uno degli ultimi baluardi dell’animo pastorale abruzzese.
Quindi voi fate ancora transumanza?
Non facciamo una transumanza classica verso la Puglia. Ma facciamo transumanza verticale in estate, quando dai 1300 metri dove ci troviamo ora, portiamo vacche e pecore sui 1600, 1800 metri. Dipende dalla tipologia di animali.
L’azienda si è anche resa il centro di una rete di produttori abruzzesi. Vuoi parlarci di questo progetto?
Si tratta di una rete di produttori che considerano importante la qualità del prodotto ma anche quella dell’approccio alla produzione, che stiamo cercando di mettere su per generare una nuova consapevolezza nei produttori.
Si chiama Laterra si ribella: il nome fa riferimento al fatto che, per quanto il produttore possa essere bravo, c’è sempre qualcuno che ne decide le sorti e la natura.
Oggi manca il discorso del “bottegaio”: quando andiamo in un centro commerciale e abbiamo bisogno di un paio di scarpe, di un libro, di un prosciutto, il cliente entra, guarda e compra senza che ci sia nessuno presente in grado di consigliarlo, di fargli capire i pregi, i difetti, le difficoltà della produzione del prodotto in questione.
Laterra si ribella vuole essere questo: un punto d’incontro per educare ed educarsi.
È un discorso ambizioso, ma quest’estate abbiamo riaperto il punto vendita in paese e abbiamo avuto modo di ospitare con una cadenza regolare prodotti e produttori diversi.
Per esempio?
Per esempio lo zafferano prodotto da Zaffineria, una ragazza di Fara Filiorum Petri che coltiva a Navelli.
Comprando lo zafferano da lei, si compra anche un’attitudine, la voglia di continuare a fare lo zafferano in un certo modo, e il discorso vale per qualsiasi altro prodotto.
Il basso costo, purtroppo, vuol dire rinunciare a portare avanti una determinata tipologia di lavoro.
Quello che stiamo cercando di fare tramite Laterra si ribella, è dare alle persone la possibilità di incontrare i produttori. Non è un negozio, è un luogo d’incontro.
Tempo fa abbiamo incontrato Il Mercato Scoperto di Lanciano, che fa parte della rete di Genuino Clandestino e che segue gli stessi valori. È una coincidenza?
Non conosco questa realtà, ma il fatto è che non ci stiamo inventando niente, stiamo solo facendo in modo che quello che abbiamo rimanga. Non so a valle, ma qui è diventata una necessità.
Stando al negozio ho avuto l’opportunità di entrare a contatto con diverse tipologie di persone, dal punto di vista sociale, generazionale, economico. E bene o male, mangiare genuino e riconoscere nella degustazione di un formaggio i valori che esistono su un territorio, sono un punto di incontro per tutti.
Ma è alla portata di tutti?
È un discorso che può essere fatto, certo. Però mi è capitato di incontrare persone giovani, magari senza un lavoro stabile, che vengono a comprare il formaggio perché si riconoscono nella storia di quel produttore o di quel formaggio.
Oggi non si acquista qualcosa solo perché è bello o è buono, ma anche per com’è fatto, da dove arriva. I ragazzi più giovani, anche di 12 o 13 anni, mi fanno domande molto molto dirette su come si gestiscono gli animali, su che vita hanno le vacche, le pecore, quanto tempo rimane un animale in gestione…
In che modo allora il vostro approccio etico si applica alla gestione degli animali?
Attualmente abbiamo 1500 pecore, 40 vacche e 100 capre che escono ogni giorno per il pascolo.
Più importante è capire come stiamo iniziando oggi a gestire tutto il gregge: per cercare di aumentare la produzione, abbiamo deciso di non integrare nuovi animali, ma di fare una selezione delle femmine e dei maschi durante la fase di monta.
Questo ci sta portando a tenere sempre lo stesso numero di capi, ma che producono di più: ci danno più latte e animali molto più forti. Inoltre, in questo momento produciamo un terzo di quello che potremmo produrre.
Una vacca da allevamento intensivo può produrre 45 litri di latte al giorno. Noi, tirandola al massimo, ne tiriamo 10-15 litri. In allevamento intensivo una vacca dura tra i tre e i cinque anni. Noi invece abbiamo vacche anziane, dall’età che può anche raddoppiare. Lo stesso vale per le pecore.
E l’alimentazione è completamente biologica, ovviamente.
Quante e quali figure esistono all’interno di un’azienda di questo tipo?
Ovviamente c’è il pastore, accompagnato dal pastore abruzzese.
Poi c’è il casaro. Noi abbiamo anche la parte legata all’agriturismo, e in questo facciamo parte di una nuova concezione: abbiamo chef, camerieri e quant’altro.
Per gestire solo la produzione, le figure dovrebbero essere tante ma non lo sono e tutti si ritrovano a fare un po’ tutto e per questo bisogna avere delle conoscenze approfondite degli animali, delle dinamiche, delle stagioni.
Però oggi servono anche figure come la tua, che si occupano di comunicazione.
Sicuramente. Io prima di fare questo lavoro ero un direttore di produzione e tour manager nel mondo della musica.
Ho deciso di tornare e di prendere quello che avevo appreso nel mondo della musica e applicarlo dalle nostre parti.
Una figura come la mia è fondamentale, ma è anche fondamentale essere consapevoli di che cosa ha rappresentato questo tipo di azienda per il territorio e che cosa deve rappresentare da oggi in poi un’azienda del genere.
I pastori abruzzesi nel frattempo, incuriositi, ci hanno circondati. Come vengono implicati?
C’è una scelta da fare: per difendere il gregge dai lupi puoi prendere un fucile e sparare, oppure prendere i cani.
Qui non si fa mai un discorso di sparare al lupo, al cervo o al cinghiale o a qualsiasi altro animale. Si usa il cane.
Utilizzo il verbo usare, che è brutto, ma è lui il nostro più grande alleato. Non implicarlo vorrebbe dire frustrarlo.
Gregorio Rotolo, come anche Nunzio Marcelli, da pastori sono diventato un simbolo.
Ormai sono delle rockstars. Perché sono rimasti coerenti con la loro idea di sviluppo del territorio e sviluppo aziendale.
Con loro stiamo provando a fare un lavoro a monte di valorizzazione del mestiere del pastore.
Nell’idea comune abruzzese si tratta di un lavoro di ripiego, qualcosa che si può finire a fare se non si studia abbastanza: *studij, ca sinnò vi ‘press à le pecur*, ci dicono quando siamo piccoli.
Quest’immagine deve cambiare.
In che modo l’azienda può rappresentare un esempio per il territorio?
Alcuni dei formaggi che vedete e che avete mangiato sono creati con ricette storiche.
Altri invece sono ricette proprie di Gregorio, come il formaggio con la scorza nera, il caciocavallo barricato o il formaggio dell’orso, un formaggio che all’interno ha degli strati di confettura di lamponi che facciamo noi.
Poi c’è il marcetto: un formaggio che non esiste solo in Abruzzo, esiste un po’ in tutti i paesi e in tutte le regioni a cultura pastorale.
In Sardegna lo chiamano lu casu martzu, in Puglia la ricotta squanta. È vietato fare quello tradizionale, perché è una forma di pecorino nella fase di primo sale lasciata in condizioni igieniche non ottimali, ma noi utilizziamo altri formaggi molto stagionati per far partire la fermentazione. Così abbiamo qualcosa di leggermente diverso da quello tradizionale ma legale e che presenta una parte del sapore fermentato che piace.
Questo è un chiaro esempio di come l’azienda sia riuscita a uscire fuori dal taglio classico del formaggio abruzzese.
Questa è l’innovazione che ci vorrebbe in tutta la regione. È l’unica opportunità che abbiamo per definirci nel mondo.
L’unica domanda che dobbiamo porci adesso è: che cosa rappresenta oggi l’Abruzzo nello scenario mondiale?
Io una risposta già ce l’ho, e secondo me ce l’abbiamo un po’ tutti.
Dobbiamo solo trovare il coraggio di ammetterlo.
Francesca
Toulouse, Gennaio 2020
Foto ©Francesca
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