Debora Vinciguerra, in arte Aruru, è una delle artiste e ceramiste abruzzesi che amiamo di più. E non solo perché sia la sorella e la zia di due delle autrici di Abruzzo.no, ma perché siamo consapevoli di quanto sia speciale il suo lavoro e di quanto sia arricchente fare la sua conoscenza.
Se passate da Lanciano, non potete perdere l’occasione di visitare il suo atelier o di ammirare i suoi lavori tra i banchi del Mercato Scoperto, il sabato mattina. Altrimenti, potete sbirciare la sua pagina Facebook.
Debora, vorresti presentarti per Abruzzo.no?
Vivo a Lanciano da sempre. Non mi sono mai particolarmente allontanata dal territorio che amo. Nonostante tutte le sue contraddizioni e i suoi difetti, continuo a voler rimanere e a voler valorizzare tutto ciò che c’è di bello in questo posto. Ho fatto studi artistici: l’istituto d’arte Palizzi a Lanciano e poi l’Accademia di Belle arti di Macerata.
Mi occupo di ceramica, come artigiana e come artista, o almeno ci provo.
Durante gli studi superiori ho lavorato presso alcune botteghe di ceramica, ma in seguito per lungo tempo ho messo da parte questa mia esperienza. Dopo l’Accademia, per diversi anni, ho gestito insieme al mio compagno un locale, un bel progetto chiamato Corvo Torvo, che amavo tanto ma che nel frattempo abbiamo chiuso. Per il Corvo Torvo, ho (ri)cominciato a produrre degli oggetti che potessero servirci nel locale: tazzine, bicchieri. Da qui è tornata la voglia di lavorare e di manipolare l’argilla.
Aruru è il tuo nome d’arte. Cosa vuol dire?
Facendo laboratori con i bambini, ho scoperto quest’antica Dea della Babilonia, Aruru. Come in molte delle mitologie antiche e contemporanee, questa divinità ha creato il primo uomo a partire dalla terra. Il dettaglio insolito è che si tratti di una donna, l’ho scelta per questo.
Nella tua vita professionale c’è l’aspetto artistico e c’è l’aspetto artigianale quotidiano. Ti va di raccontarci i tuoi lavori?
L’artigianato è il modo che ho trovato per fare un lavoro che mi piace. C’è voluto molto tempo, partendo da zero e cominciando tardi.
Mi diverto a creare oggetti che prendono spunto dalla tradizione, ma che poi ne escano fuori.
Ho scelto un tipo di lavorazione artigianale completamente manuale, per esempio non faccio uso del tornio.
Uso esclusivamente le mie mani. Questo mi permette di ottenere oggetti unici ed irripetibili e che trasmettono una sensazione di calore.
In questo periodo mi interessano i manufatti sanniti, la loro scrittura, che portata nel nostro mondo assume un aspetto decorativo. Mi piacerebbe sperimentare cotture naturali ed, ho iniziato ad utilizzare i vari colori delle terre, delle argille( grigia, rossa,bianca, nera), come se fossero veri e propri colori per creare effetti pittorici.
Come si trasforma la tradizione nella tua opera artigianale?
Nel riprendere alcuni simboli tradizionali, nostrani, e rinfrescarli reinventarli. Ad esempio, ho ripreso il disegno della presentosa (un gioiello tradizionale abruzzese) l’ho ingrandito, ne ho fatto uno stampo, e l’ho riprodotto sulle mie ceramiche. Su bicchieri, piatti, brocche,…
Ancora, la campanella della festa di Sant’Egidio della festa di Lanciano, oppure il tipico “fioraccio” della tradizione abruzzese, questi fiori variopinti e un po’ chiassosi che ho riprodotto sulle campanelle e che sto cercando di riprodurre su altri oggetti. In questo senso uso molto l’incisione della terra bianca e dei colori stesi a tinta unita.
In che modo si è realizzato il passaggio dall’artigianato all’arte?
Le cose che si possono realizzare con l’argilla sono infinite. Più la si lavora e più si ha voglia di sperimentare, di provare, di incuriosirsi. Probabilmente, tutti quegli anni di fermo si erano semplicemente sedimentati nella mia persona e ad un certo punto sono dovuti venire fuori. In un primo momento l’argilla era solo un medium per realizzare dei lavori, ma anche allora ero cosciente dell’entità di questa materia e già nella mia prima istallazione ho giocato sulle differenze tra terra cotta, terra cruda,…
Qual è stata la tua prima istallazione?
La prima volta sono stata contattata da Stefano Di Matteo delle Caltapie, una vivace realtà culturale di Lanciano. Aveva organizzato un evento e mi ha chiesto se volevo realizzare un’istallazione. Il tema era quello del viaggio e il mio lavoro si chiamava Fiumi di piume. Sognai talmente forte che mi uscì il sangue dal naso. Si trattava di un fiume costituito da tanti piccoli pezzi a forma di goccia o di piuma sulle tonalità dell’azzurro. Mi facevano pensare al sogno come forma di viaggio possibile a chiunque. Da qui il riferimento alla canzone Il Fiume Sand Creek di Fabrizio De André.
Questo lavoro lo dedicai alle figlie di Dalit, le ragazze della casta inferiore indiana. In quei giorni avevo appreso la notizia di alcune di queste ragazze che erano state abusate e poi impiccate. Dedicai il mio lavoro ai loro sogni, ai loro viaggi interrotti.
Poi di esposizioni ce ne sono state tante. Quali sono state le più importanti per la tua formazione?
Diverse. Tra queste, sicuramente le partecipazioni ad Art in the Dunes, la manifestazione artistica che si svolge a Vasto, nella riserva naturale di Punta Aderci.
Mi piace molto l’idea di dialogo tra l’arte e la natura e della temporaneità di questo genere di eventi, alla sensazione di effimero, sfuggente che riconduce alla naturalezza.
Uno dei miei lavori che ha riscosso più assensi è “La Dulce Acequia” che significa la “dolce fessura”… tra le cosce della Terra. È costituita da un’ogiva che ricorda una vagina contenente acqua e circondata da piccoli cocci di smalto rosso, come fossero dei frutti. Sotto ogni “frutto” c’è un’infiorescenza realizzata in terra cruda.
All’osservatore viene richiesto di abbandonare l’infiorescenza nell’ogiva e di prendere con sé il frutto. L’infiorescenza si sgretola nell’acqua e torna ad essere fango, mentre il frutto rosso, che è il colore carnale, della passione, del sangue e della vita resta in possesso dell’osservatore. In seguito le persone che partecipano mi inviano delle foto dei luoghi in cui hanno collocato il frutto.
Così creo una rete di comunicazione, le persone entrano in empatia con l’artista ed io entro nella dimensione privata dell’osservatore. L’opera cambia forma e stato. Si trasforma grazie alla partecipazione delle persone che diventano parte attiva dell’ opera.
Quali sono le tue fonti di ispirazione?
La Dulce Acequia e la Llorona, di cui ti parlerò tra poco, li ho creati dopo aver letto un libro molto importante per me, Donne che corrono coi lupi, di Clarissa Pinkola Estés. Mi è stato regalato tanti anni fa e l’ho letto in un momento particolare.
Sono tanti i pezzi nella vita che si incastrano e che ti permettono di fare certe scelte. È anche grazie a questo libro ho deciso di ricominciare nel lavorare nel mondo dell’arte.
La Llorona è un lavoro che ho realizzato in occasione della mia prima e finora unica esposizione personale all’Oasi di Serranella (2017).
Nel libro si parla di una donna di origini messicane che sposa un uomo benestante dal quale ha due figli, ma che la lascia per un’altra donna. La Llorona impazzisce e per la disperazione affoga i suoi figli nel fiume, prima di suicidarsi. La leggenda racconta che vaghi lungo le sponde dei fiumi e con le sue lunghe dita draghi il fondo del fiume alla ricerca dei suoi figli per portarli via con sé.
Il vero significato del racconto è legato alla creatività, al non lasciarsi andare e al mantenere sempre viva la parte creativa presente in ognuna di noi donne.
Per quanto riguarda l’istallazione, ho legato sui rami di un vecchio salice i cui rami scendevano su uno stagno dei fili su cui erano appesi cinque elementi lunghi e affusolati a ricordare le dita delle mani della Llorona.
La femminilità, la terra e l’acqua, il dinamismo delle istallazioni sono elementi ricorrenti nelle tue opere. Come vivi la vita in Abruzzo, in quanto artista?
In quanto artista, non mi toglie assolutamente nulla. Uscire vorrebbe dire certo confrontarsi con altre realtà, ma attraverso i nuovi media e le tecnologie riusciamo ad essere ovunque e nello stesso posto nello stesso momento, anche se ovviamente non in tutti i sensi.
Insomma, mi trovo benissimo. Per quello che appare ai miei occhi ho trovato un gran fermento a livello artistico e di artigianato, ma anche culturale in generale. Ci sono dei bravi artisti, dei bravi fotografi, film-makers. Mi viene in mente Fabio Amoroso, un bravissimo artista e ceramista di Rapino. C’è, poi, Arago Design, che hanno un modus operandi più sofisticato del mio. Io li trovo geniali! Scambiare opinioni ed idee, confrontarsi tra di noi… ecco, sono convinta che uscire dall’Abruzzo, se mai dovesse succedere, sarebbe solo temporaneo.
Quale sarà la tua prossima istallazione?
EPTÀ è il nome dell’installazione con cui io e Barbara Giuliani (poesia) partecipiamo all’edizione di quest’anno di Art In The Dunes. Il tema di quest’anno è “Ketos, il mostro marino” [Leggete qui la nostra intervista all’ideatore di Art in the Dunes].
Infine, le tre domande di rito di Abruzzo.no:
Piatto abruzzese preferito?
Il rintrocilo, però alla trappetara. È un piatto che si prepara durante la raccolta delle olive, con aglio di Sulmona, olio nuovo, peperone di Altino. Si potrebbe sforare con qualche pomodorino, ma insomma.
Luogo preferito in Abruzzo?
Almeno due: S. Valentino in Abruzzo Citeriore, dove la mia amica Cristiana Galasso ha la sua piccola cantina in cui produce vino naturale [Feudo d’Ugni NdR]; e l’oasi di Serranella, perché è un posto estremamente selvatico e autoctono.
Proverbio abruzzese preferito?
Lava cane e shtrija cane, quann’cchiù cane allav, sempre de canegn puzz’ (Per quanto si lavi e si spazzoli un cane, non perde l’odore).
Francesca
Tolosa, Luglio 2019
Foto ©Come da didascalia
Foto di copertina ©Valeria Tinari
Le altre foto sono di ©Aruru o di ©Venusia
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