Ezio Colanzi ha scritto un libro: Dove tornano le nuvole bianche. Viaggio in bicicletta nell’Abruzzo abbandonato. (2015, Ed. UAO).
L’ho ricevuto in regalo qualche anno fa, ed ultimamente mi è venuta voglia di rileggerlo.
Riaprendolo ho trovato questo mio appunto a matita:
“Mi piacciono molto le riflessioni dell’autore, sono sensibili, attente ai particolari, poetiche. Da dove nasce questa sua curiosità per i luoghi abbandonati?”
Mi scuseranno i puristi, ma il libro ha anche diverse sottolineature. Ho voluto quindi saperne di più di Ezio Colanzi ed il suo progetto di cicloeremia.
Volevo chiederti innanzitutto chi è Ezio Colanzi, e come è nata l’idea di questo viaggio in bicicletta? Perché i luoghi abbandonati?
Ezio Colanzi di mestiere fa l’apicoltore, nel tempo libero gira in mountain bike per montagne e luoghi interni. Prima del giro nella mia regione, l’Abruzzo, avevo fatto altri viaggi in bici, poi finalmente ho deciso di affrontare una faccia rappresentativa dei miei luoghi.
I luoghi interessanti per me sono quelli spontanei, dove esiste un disordine naturale, genuino. A volte è necessario cercarli, andare oltre la patina appariscente dei panorami. Nelle case i miei spazi preferiti sono le soffitte, i sottoscala, dove in modo normale s’ammucchiano e s’impolverano le tracce e i simboli delle vite dei residenti.
L’abbandono mi sembra un processo spontaneo delle cose, non artefatto, non costruito dall’uomo.
I paesi abbandonati mi sembravano luoghi dove fosse possibile lasciar andare l’immaginazione, curiosando tra le case in rovina, i muri a secco, le pietre dei vecchi orti. Ho cercato e immaginato le consuetudini di chi li abitava. A volte mi sono fermato ad osservare i segni del tempo sulle cose, come le stagioni logorano la materia, i legni delle finestre, i ferri nei muri.
Ho sempre pensato che ciascun luogo non sia lo stesso per persone diverse, ciascuno di noi secondo la propria esperienza o stato d’animo noterebbe particolari invece che altri. Se visito la casa dei miei nonni provo emozioni particolari, magari legate alla mia infanzia. La stessa casa non produrrebbe le stesse emozioni per altri visitatori.
Per questo credo che i luoghi siano soggettivi, rappresentazioni interiori. Ci specchiamo nei luoghi e notiamo una serie di elementi fondamentali per l’esistenza del luogo stesso. Ciò che non notiamo non esiste, non lo facciamo accadere.
Perché da solo, perché in bicicletta?
La bici è la mia passione, ed è un modo di viaggiare senza nessuna protezione. Se ti insegue un cane pastore l’unica cosa che può salvarti sono le tue gambe. Avrei un archivio di storie su cani pastori che mi hanno inseguito, te le racconto nella prossima intervista [Evviva!].
Ho sempre preferito girare da solo.
Quando si gira da soli si è più disposti a parlare con le persone che s’incontrano.
Il tempo del proprio viaggio è personale, corporale, una conseguenza della propria fatica. La bicicletta permette di entrare nei luoghi con un ritmo intimo, individuale, secondo un tempo proprio.
Qual è stato, tra quelli che hai visitato in questo viaggio, il posto più bello, quello che ti ha lasciato un segno più profondo?
Ciascun luogo mi ha affascinato in modo unico. A volte mi tornano in mente delle immagini del giro. Ricordo un temporale con molti fulmini a Campo Imperatore mentre cercavo un buon riparo , ricordo le forme verticali del Gran Sasso da Valle Piola. Ricordo diverse notti in tenda, una sotto ai ruderi di Rocca Calascio, una al centro di Iuvanum, una ad ascoltare gli ululati tra le frazioni abbandonate di Valle Castellana. Ricordo un pomeriggio di pioggia in un bar di Bisegna, dove un uomo incontrato lì non aveva capito il mio nome e continuava a chiamarmi Daniele.
Quali sono le tue riflessioni rispetto alle persone che vivono in posti semi abbandonati, o che gravitano ancora attorno a quelli abbandonati. Cosa pensi che le spinga a restare o a tornare?
Mi fa piacere che si abiti l’entroterra. Mi piace pensare che chi vive nell’entroterra sia autonomo, indipendente. Provo simpatia per chi sa fare l’orto, per chi recupera e custodisce i semi. È importante, è una cosa che auguro all’umanità, non solo per l’idea di alimentarsi con cibi genuini e senza chimica, ma in particolare per la cura della propria indipendenza alimentare.
Non possiamo dipendere da catene di distribuzione per nutrirci. Bisogna saperlo fare e farlo, anche se mi rendo conto che in contesti urbani attuali l’orto rappresenta un lusso. Il mio principale pensiero è questo. Per chi invece si occupa di altro, non di agricoltura, spero sempre che abitare l’entroterra rappresenti un vantaggio, un modo per stare meglio, per avere spazi maggiori. Si può comunicare in molti modi e lavorare da casa.
Aggiungo un dettaglio che potrebbe sembrare contraddittorio. Sotto il profilo estetico ed emotivo oggi credo che i paesi abbandonati siano belli come le canzoni tristi che ascoltiamo ed apprezziamo e se ci piacciono davvero non pensiamo mai di modificare le melodie o di valorizzarle in altri modi.
Personalmente riabiterei l’entroterra ma non i paesi abbandonati, l’ultimo uomo che se n’è andato da ogni paese ha rotto il legame, non ha senso tornare. I paesi abbandonati li lascerei al tempo.
Secondo te se c’è la possibilità, e nel caso come, per la montagna abruzzese di attirare persone che vogliano stabilirsi lì?
La possibilità c’è di sicuro, non ho però una ricetta buona per tutti.
Se si vuole tornare a vivere di agricoltura, per esempio, è importante sapere che l’agricoltura non è un ritorno al passato ma un’avanguardia. I prodotti agricoli risentono della concorrenza di prodotti importati che costano molto meno dei nostri e riempiono gli scaffali della grande distribuzione.
In agricoltura, oltre alle sfide tipiche di chi lavora sotto il cielo, la vera frontiera resta il mercato. Procurarsi un mercato stabile e soddisfacente è complesso, lo è di più se ci sono distanze territoriali dai centri importanti.
In ogni caso una via si trova, ho le prove, io vivo di agricoltura.
Qualche anno fa sono tornato nella vecchia casa dei miei nonni in una piccola frazione del comune di Casoli, in provincia di Chieti, ho restaurato un fienile cadente, ho costruito un laboratorio alimentare. Ora lì c’è l’azienda apistica, la sede dell’apicoltura Colanzi, un progetto che impegna mia sorella e me.
Personalmente ho utilizzato il mestiere dell’apicoltura per riabitare. Parlo della mia esperienza ma possono esistere di certo attività alternative, intuizioni nuove. Aspetto sempre di stupirmi.
Il tuo libro mi è piaciuto molto, l’ho trovato molto profondo, con delle riflessioni attente, e mi chiedevo come è nata proprio l’idea del libro. Come è stato scriverlo, qual è l’idea dietro questa pubblicazione?
Non avevo pensato di scriverlo. Un’amica giornalista che aveva seguito il mio giro mi invogliò a scrivere qualcosa. Decisi di darle retta perchè mi piaceva scriverne. Così lo feci e poi lo proposi ad un editore. Purtroppo oggi il libro non è più stampato in quanto l’editore ha cessato l’attività. Mi piacerebbe un giorno rivedere la pubblicazione di Dove tornano le nuvole bianche, fare qualche aggiunta e magari di nuovo pubblicarlo. [Speriamo che ci legga qualche editore].
Volevo chiederti anche di questo tuo blog, Cicloeremia. Anche qui qual è l’idea dietro a questo progetto? Perché fare un blog, e perché chiamarlo cicloeremia?
Cicloeremia mi sembrava dicesse molto della mia maniera di girare in bici, mi sembrava un modo simpatico per descrivere quello che facevo, ovvero mettere qualcosa da mangiare nello zaino, salire sui pedali e attraversare boschi, montagne, vecchi paesi.
Semplicemente volevo creare un bacino dove depositare il materiale dei miei itinerari, immagini e contenuti.
Ho sempre creduto fosse importante perdersi in montagna, orientarsi cercando informazioni dai luoghi stessi, per questo non utilizzo GPS ed altri strumenti che non siano bussola e mappe. Sul sito non ho mai messo i file degli itinerari, poiché non esistono, non li ho mai tracciati.
Poi ci sono le tre domande di rito del sito
Posto preferito in abruzzo: Majella, ma solo perchè è la montagna di casa mia.
Piatto abruzzese preferito: mi piace il buon cibo e della nostra cucina adoro tutto, te ne dico alcuni: pizze e foje, pallotte cace e ove, rostelle, rintrocili. Per dolce: cicerchiata e bocconotti.
Proverbio in dialetto abruzzese preferito: ‘nghe lu sci ti ‘ndricce, ‘nghe lu no ti stricce.
Ezio e’ stato generoso, e due itinerari ce li consiglia. Con una saggia premessa:
Gli itinerari descritti hanno valore indicativo, è importante documentarsi bene sulle distanze prima di partire, sono zone impervie e difficili da raggiungere.
Raccomando quindi prudenza, di tornare indietro in caso di dubbi e di portare il cellulare. Soprattutto raccomando di osservare i vecchi paesi dall’esterno e di non avvicinarsi a i ruderi.
Itinerario 1. Terranera – Pagliare di Tione
Da Terranera, dal cimitero, c’è una strada carrozzabile che porta alle Pagliare di Tione, un paese abbandonato e un luogo pregevole, affacciato sul monte Sirente.
La via si distingue facilmente, è larga, basta non lasciarsi tentare da qualche svolta laterale. L’itinerario attraversa il bosco per diversi km, prima di raggiungere la destinazione passa nei pressi delle Pagliare di Fontecchio, altro piccolo agglomerato in abbandono.
Raggiunte le Pagliare di Tione, in mezzo alle case si individua presto un grande pozzo, con due rampe di gradini che scendono all’interno. Si poteva prelevare l’acqua, risalire e versarla negli abbeveratoi esterni di pietra per far dissetare gli animali.
In questa zona si praticava la transumanza verticale, ovvero il bestiame veniva portato nella buona stagione, le Pagliare servivano come ricovero. In effetti si tratta di strutture di due piani, al piano terra c’era la stalla, al primo piano dormiva il pastore.
Si può tornare indietro facendo la stessa via.
Itinerario 2. Scanno – Frattura Vecchia – Pescocostanzo.
Procedendo verso il paese di Scanno, a poco più di un km dal lago, si svolta a sinistra verso Frattura. Si risale verso il vecchio paese lungo i tornanti e su asfalto. Quando si raggiungono le prime case di Frattura si prende a sinistra verso Frattura vecchia, poco dopo la strada diventa bianca, si attraversa una radura, dopo un ultimo tornante ecco il vecchio paese, distrutto dal terremoto della Marsica del 1915.
Chi è allenato ed ha buone scorte di cibo e di acqua, può tornare al paese di Frattura Nuova, riprendere la salita, superare il paese, dalla fine dell’asfalto salire ancora su strada bianca, fare alcuni tornanti tra gli aghiformi, continuare senza cedere alle tentazioni di piccole svolte. Ad un certo punto la via scende verso la piana delle Cinque Miglia e si può andare a visitare il borgo di Pescocostanzo. Se si vuole compiere questo itinerario senza fretta serve una giornata e si può pensare di pernottare in zona Piana delle Cinque Miglia o a Pescocostanzo.
Venusia
Oslo, Gennaio 2021
Foto di ©Ezio Colanzi, ne trovate altre su Cicloeremia oppure qui.
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